Tra i documenti dell’Archivio Martini c’è anche l’omelia che Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, tenne in Duomo il 24 marzo 1990, per la celebrazione eucaristica in memoria di monsignor Oscar Romero e dei sei padri gesuiti uccisi in El Salvador, rispettivamente il 24 marzo 1980 e il 16 novembre 1989.

Nell’Archivio è disponibile la scansione del testo originale dattiloscritto dell’intera omelia, di cui riportiamo di seguito la parte relativa a Romero.

 

La fede e il coraggio che discendono da Gesù

(…) Abbiamo scelto di ricordare prima di tutto la figura dell’Arcivescovo Romero, nel decennale della sua sorte, perché non soltanto ha avuto un particolare rilievo di grande responsabilità nella Chiesa come Vescovo di una Diocesi metropolitana con oltre un milione e mezzo di cattolici ma anche perché l’esemplarità di questa figura ci aiuta o capire quella di tanti altri nostri fratelli e sorelle che hanno dato la vita per il Vangelo.

Una esemplarità che si comincia ad approfondire oggi in maniera particolare dal momento che a San Salvador viene aperta la causa in vista della sua beatificazione. Anch’io ero stato invitato per questo giorno a San Salvador nella Cattedrale dove è sepolto l’Arcivescovo Romero ma ho preferito restare a Milano avendo già deciso di celebrare insieme con voi l’Eucaristia. Vogliamo comunque sentirci uniti in una grande catena di preghiera con i Vescovi di parecchi paesi d’Europa, rappresentanti anche dell’Italia, oggi raccolti nella cattedrale di San Salvador.

C’è poi una coincidenza di date che mi lega all’Arcivescovo Romero: mi trovavo da pochi giorni a Milano come nuovo Arcivescovo quando giunse la notizia della sua morte avvenuta durante la celebrazione eucaristica. Fin da quel momento mi è parso che Romero fosse per me un esempio, un riferimento. Stavano pensando proprio allora a preparare il Congresso Eucaristico e io mi sono detto: ecco, l’Eucaristia è qualcosa per la quale si muore, qualcosa che ci dà la forza di morire per gli altri.

Monsignor Romero era stato Arcivescovo soltanto per tre anni. Nominato il 3 febbraio 1977, era entrato a San Salvador il 2 febbraio. Al tempo della sua elezione era poco conosciuto, ed era però definito piuttosto come “spiritualista”. quasi a indicare che appariva lontano dalle concrete lotte del suo popolo. Un uomo pacato e prudente, del quale si diceva: non darà noia a nessuno.

Ma pochi giorni dopo il suo ingresso in Diocesi, il 12 marzo 1977, ci fu una notte decisiva: venne infatti ucciso in un agguato nella campagna, insieme con due contadini, uno dei preti più validi e stimati dell’arcidiocesi, il gesuita padre Rutilio Grande. Romero, che lo conosceva personalmente, accorse subito sul luogo della tragedia e passò un’intera notte dì veglia e di preghiera presso il corpo massacrato dell’amico. Più tardi confidò che le lunghe ore di preghiera erano state per lui come il momento di una nuova conversione, di una nuova apertura degli occhi. Gradualmente la sua voce cominciò a levarsi sempre più forte contro ogni ingiustizia e persecuzione, la sua parola, pur se forte, si manteneva pacata e piena di fede.

Il 19 giugno 1977 diceva al fedeli di una parrocchia in cui era stato ucciso un giovane, i preti erano stati espulsi e l’Eucaristia profanata: “Il dolore di questa parrocchia è il dolore della Chiesa… Per Dio non c’è nessun uomo perduto. Per Dio non c’è se non il mistero del dolore che, se accettato con sentimenti di santificazione e redenzione, sarà come quello di Cristo nostro Signore, un dolore redentore”.

E pregava in quella stessa occasione: “Preghiamo per la conversione di coloro che ci hanno colpito, di coloro che hanno avuto l’audacia sacrilega di profanare il sacrario dell’Eletto. Chiediamo al Signore il perdono e la penitenza, il pentimento debito, la conversione di tutti questi, i quali hanno cambiato questo paese in un carcere, in un luogo di torture. Che il Signore tocchi il loro cuore, prima che si compia la sentenza tremenda: “Chi di spada ferisce, di spada perisce”.

Da allora l’Arcivescovo visse soprattutto per difendere la vita dei poveri e dei perseguitati del suo popolo e, in tre soli anni, divenne uno dei più grandi profeti della giustizia. In lui non vi fu mai amarezza, risentimento, non alzò mai grida scomposte; voleva semplicemente, fortemente e umilmente, farsi voce di chi non ha voce.

Parlando della sofferenza e anche dell’uccisione di sacerdoti, religiosi e religiose che si sarebbe aggiunta alla uccisione del padre Rutilio Grande, soleva dire: “Sarebbe triste che in una patria in cui si assassina cosi orribilmente, non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Loro sono testimoni di una chiesa incarnata nei problemi del popolo”.

Venne così l’anno 1980. Le repressioni si erano fatte violente, le uccisioni continuavano. Nelle omelie del 13 e del 20 gennaio, l’Arcivescovo fece un’analisi addolorata della situazione, condannò le repressioni che schiacciavano i desideri di libertà del popolo, fece un appello perché tutti udissero la voce di Dio e condividessero volentieri con altri il potere e le ricchezze, invece di provocare una guerra civile che soffocava tutti nel sangue.

Il 2 febbraio, poco più di un mese prima della sua morte, era stato in Europa, a Roma e a Lovanio, dove aveva ricevuto il dottorato dell’Università. Nel discorso pronunciato per la circostanza, aveva parlato della dimensione politica della fede e della opzione della Chiesa per poveri. Poche settimane dopo moriva trafitto presso l’altare.

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