Compie quarant’anni il 13 maggio la legge 180, approvata nel 1978 su iniziativa di Franco Basaglia, lo psichiatra veneziano considerato il principale esponente del movimento anti-istituzionale.

La legge impose la chiusura dei manicomi e regolò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo servizi di igiene mentale pubblici e favorendo terapie che non ledano la dignità e la qualità di vita dei pazienti.

Sul tema della salute e della malattia mentale proponiamo di seguito una riflessione biblica del Cardinale Martini. Si tratta di uno stralcio di un suo intervento al convegno internazionale «La cittadinanza è terapeutica. Confronto sulle buone pratiche per la salute mentale», promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal Comune di Milano e dalla Caritas Ambrosiana nell’aprile del 2002, pochi mesi prima della fine del ministero episcopale a Milano.

 

«Il mio nome è Legione perché siamo molti»

 

Desiderando offrire alcune riflessioni introduttive a partire da quanto mi è più familiare, cioè la Bibbia, vorrei richiamare un episodio narrato nel Vangelo di Marco (Mc 5, 1-20). Un uomo della città di Gerasa dai comportamenti bizzarri, indubbiamente inquietanti ed autoaggressivi (percuoteva se stesso con delle pietre) era stato relegato dalla sua comunità in un luogo di morte. Non poteva che vagare tra le tombe, lontano da esseri vivi, quasi a rappresentare quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, se pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria.

Gesù si lascia avvicinare da questo strano personaggio angosciato ed impetuoso e gli chiede il nome, potremmo dire che comincia dal tentativo di riconoscimento della sua identità personale, non fuggendo dalla tensione che si genera nell’incontro con la sofferenza dell’altro.
“Il mio nome è Legione perché siamo molti”, risponde l’uomo rivelando una scissione che non gli permette di esprimersi in modo chiaro ed accettato da tutti, che non gli consente il gusto della relazione. Gesù sta con lui e fa qualcosa per lui: questo trasforma la sua vita.

Viene in mente l’utilizzo corretto e competente dello strumento del colloquio, ovvero di quello specifico momento clinico nel quale lo psicoterapeuta, lo psichiatra, lo psicologo, l’educatore, l’infermiere, l’assistente sociale, il terapista della riabilitazione instaurano una relazione personale con la persona sofferente e sanno partire dal suo nome per costruire con lui un progetto di cura che tenga conto della sua singolarità, non principalmente dei modelli teorici, delle linee guida, delle scuole di pensiero.

Nel colloquio avviene l’incontro tra almeno due persone che si svelano reciprocamente, l’una col bisogno di stare bene, l’altra col bisogno di capire ed aiutare. E’ il luogo dove colui che si prende cura, affina la capacità di “prescrivere se stesso come farmaco”, mettendosi in gioco con i suoi pensieri ed i suoi sentimenti.
Ci si pone accanto alla persona sofferente come possibili “custodi del segreto” nell’ascolto del mondo intimo dell’altro, lacerato da blocchi e contraddizioni, ma anche incredibilmente provocatorio nei confronti del curante. Nel colloquio, ciascuna delle persone coinvolte è come portata ad entrare nel mistero dell’altro – perché anche il malato mentale comprende molte cose intime dell’operatore che si avvicina a lui – e non può abdicare alla questione del senso.

Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle di chi non soffre: le idee possono essere bizzarre e non comprese, le risposte affettive inadeguate, le reazioni inaspettate, la voce per chiedere e rivendicare i propri diritti molto debole. L’uomo di Gerasa desidera andare verso Gesù, ma le sue parole risuonano come una minaccia e non come una richiesta di aiuto. Tante persone affette da disagio psichico riescono a formulare così impulsivamente il loro bisogno di cura e di vicinanza da risultare aggressivi agli occhi degli altri.

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